Cassazione Civile, sez. III, sentenza 12/06/2015 n° 12205
A poco più di un mese dalla emanazione della sentenza n°9331 emessa a maggio 2015, nella quale si stabiliva la non necessarietà del consenso informato in caso di intervento o procedura eseguito in assenza di alternative, e nella quale si poneva a carico del paziente l’onere della prova circa le reali conseguenze della mancata informativa, la Suprema Corte con un cambio d’opinione trasversale e netto ritorna sullo steso tema invertendo completamente la rotta. Con la sentenza in discorso, infatti vengono ribaditi alcuni principi che parevano potersi ritenere superati, ma, soprattutto, viene affermata una assoluta prevalenza del principio di autodeterminazione finanche sul valore vita. Da tale affermazione si comprende con immediatezza l’importanza della pronuncia in discorso, la quale pone, a parere di chi scrive, una serie di problematiche non sono di ordine giuridico ma, e con una forza dirompente, ancor più di ordine etico.
Ecco il fatto processuale: durante un intervento di asportazione di cisti ovarica, in base ad esame istologico (evidentemente intraoperatorio), veniva riscontrata la presenza di un tumore maligno (adenocarcinoma) con conseguente decisione del chirurgo di eseguire immediatamente una «laparotomia, una isterectomia totale, una annessiectomia bilaterale, una appendicectomia ed omentectomia». Naturalmente, il detto intervento, estremamente demolitivo, non era stato discusso con la paziente poiché non vi erano motivi che spingessero l’equipe a pensare ad una eventualità tanto grave, con conseguenze mancanza assoluta di informativa e di consenso, esistente solo per l’operazione di asportazione di cisti ovarica già programmata. A seguito di ciò, la paziente programmò una serie di controlli presso un ospedale francese che smentì la natura maligna del tumore palesando la inutilità a fini di reale cura della salute dell’intervento eseguito dalla prima equipe.
Da ciò è scaturita una richiesta di danni per la responsabilità presunta sia dell’equipe chirurgica, che dei sanitari che avevano eseguito l’esame bioptico. In sede di giudizio di primo grado si accertava, però, l’errore della struttura d’oltralpe la quale pose diagnosi di tumore maligno, seppure di altro tipo, il che portò il Tribunale, così come la Corte di Appello, a rigettare le domande risarcitorie sotto tutti i profili, ricomprendendo anche la mancata prestazione di consenso, stante il carattere di necessarietà e dovutezza dell’intervento. Al di là degli orientamenti altalenanti sul tema, con la sentenza del maggio scorso pareva essere ormai consacrato il principio secondo il quale, nei casi in cui l’atto medico non avesse determinato un peggioramento dello stato di salute del paziente, ma “al contrario” ne avesse determinato una conservazione seppure dolorosa, non vi sarebbe stato alcun danno risarcibile salvo la prova, realmente difficile da dare per il paziente in casi del genere, che se correttamente informato, lo stesso avrebbe rifiutato le cure.
La sentenza in commento, riconosce, invece, il diritto al risarcimento del danno anche in caso di intervento ben eseguito con conseguente guarigione del paziente per violazione del principio di autodeterminazione. Ciò che sorprende, e che chi scrive trova quantomeno discutibile, è che gli Ermellini, affermando che l’informazione sull’atto medico nuovo ed imprevisto da eseguire avrebbe posto la paziente nella condizione di poter decidere se assentire o meno all’intervento, si spingono fino a sostenere che il paziente ha il diritto di scegliere di rimanere nella situazione di malattia anche se ciò vuole dire perdere la vita stessa a causa della malattia non curata. Non solo, secondo la Suprema Corte, il diritto alla autodeterminazione va rispettato anche in riferimento alla scelta di farsi curare altrove, alla scelta di interventi (qualora esistenti) in grado di essere meno invasivi o demolitori. Da ciò deriva il diritto al risarcimento del danno che (bontà loro verrebbe da dire) sarà limitato al solo danno da mancato consenso quando l’intervento ha avuto comunque un risultato risolutivo in senso positivo per la salute del paziente.
A conclusione di tale disamina non può non notarsi come la pronuncia in commento apra un’altra crepa, profonda e pesante, nella serenità dei medici i quali, anche se operino nelle migliori condizioni, con le migliori tecniche, e con il fine conclamato di preservare la vita del paziente, rischiano di vedersi comunque condannati se non informano il paziente in maniera tale da poterlo dimostrare. Ancora, emerge con tristezza la condotta della paziente la quale, nel vivere una vita che solo l’atto medico eseguito le ha garantito, sceglie di attaccare a fini speculativi chi la ha “salvata”, il che rende evidente quanto sia spesso aberrante il ricorso alla tutela giurisdizionale da parte dei pazienti. Da ultimo, ci si augura un nuovo e più deciso cambio di rotta da parte della Cassazione poiché, a parere di chi scrive, la libertà di autodeterminarsi è tale fintanto che esiste una vita nella quale manifestarla, così come pure, ammettere che una persona possa scegliere di non curarsi a rischio della vita (scegliendo in sostanza di morire) equivale a riconoscere il diritto all’eutanasia.
Avv. Gianluca Mari
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